“Dei tre cavalli che corrono per Palazzo Marino, Albertini sembra il meno interessato alla gara. Mi ricorda Ribot, che a prima vista nessuno avrebbe dato come vincente, non avendo l’aspetto del grande galoppatore di classe; che quando veniva accompagnato al paddock per essere mostrato al pubblico osannante e girava con gli altri cavalli si vedeva chiaramente che era infastidito da tanto clamore e da tanta attenzione. Ribot appariva quasi neghittoso e mostrava una certa insofferenza per questa esibizione. Poi scendeva sulla pista, correva da par suo, vinceva con tre lunghezze di distanza e se ne andava ancora più seccato di prima tra le acclamazioni della folla” Indro Montanelli (maggio 1997)

“Quest’uomo dall’apparente remissività, persino umile, che mai alzerebbe la voce o pesterebbe il pugno sul tavolo, di un’ingenuità quasi fanciullesca – ricordate quando si mise in mutande alla sfilata di Valentino? – è un duro che si spezza ma non si piega né tanto meno si impiega” Indro Montanelli (aprile 2001)

Gawronsky, addio a Strasburgo: uno su tre è un eurofannullone

Jas Gawronsky, lei è il decano di Stra­sburgo.
“Mi candidai alle prime elezioni europee, nel ’79, con il Pri, dietro a Susanna Agnelli. Suni trionfò, io fui il primo degli esclusi, con cento voti in più di Roberto Olivetti, e tornai a fare il corrispondente Rai: Parigi, poi Mosca. Ma l’anno dopo Suni divenne ministro, e mi lasciò il po­sto. Sapevo a malapena cosa fosse il Par­lamento europeo. Non ne sono più usci­to, se non per una legislatura da senato­re”.

Ora però il suo nome nelle liste Pdl non c’è. Cos’è successo?
“Bisogna saper dire di no prima che te lo dicano gli altri”.

Le ha detto no Berlusconi?
“Al contrario, Berlusconi ha cercato di farmi cambiare idea. Ma la sesta volta sa­rebbe stata di troppo. Basta con la politi­ca attiva”.

A Strasburgo ha visto passare grandi personaggi.
“Simone Veil ogni tanto faceva intravedere il tatuaggio del numero che le avevano inflitto ad Auschwitz. Gere­mek, da quando è morto in un incidente d’auto, qui è diventato un mito. E poi Ca­stro, che andai a visitare due volte”.

Che impressione le fece?
“Ottima. Convinto di essere in buona fede. Esecra gli Stati Uniti ma in fondo li ammira. Adora il baseball. Un dittatore, ma un grande personaggio. Non come Ortega: un dittatoruncolo”.

L’italiano più noto all’Europarlamento?
“Pannella”.

Nel 2004 arrivò D’Alema.
“E rimase sempre sulle sue. Non era arroganza; era senso di superiorità”.

Santoro?
“Inutile. Era di passaggio. Non ha lasciato tracce”.

La Gruber?
“Tutt’altro. Molto charmante. E poi parlava tedesco. Qui le lingue sono fonda­mentali. Emanuele Filiberto ha detto di conoscerne cinque: è un vantaggio, ma l’importante è padroneggiare l’inglese”.

Quali tra gli italiani lo padroneggiano?
“Quasi nessuno”.

Il principino farà bene?
“Mi pare adatto. Gli auguro di essere all’altezza di Otto d’Asburgo, che dettava la politica verso l’Est europeo. Un vec­chietto delizioso: cortese, understated; tweed, lane pesanti; vestiti un po’ larghi, comodi, da gentiluomo di campagna”.

Nell’89 arrivò Giscard.
“Prima riunione del gruppo liberale. Per conoscersi ognuno si alza e racconta di sé. L’ordine alfabetico fa sì che siamo seduti vicini. Io parlo per qualche minu­to. Poi si alza lui, dice solo: ‘Mi chiamo Valéry Giscard d’Estaing e sono stato pre­sidente della Repubblica francese’, e si risiede. Una certa spocchia aristocratica, giustificata dall’intelligenza”.

E De Mita?
“Concentrato sulle cose italiane. Degli esteri non gli importava molto. Fosse a Strasburgo o a Bruxelles, si occupava di Avellino o Nusco”.

Esistono gli eurofannulloni?
“Certo che sì. Un terzo sarebbe meglio non ci fosse: sono i veri fannulloni; non seguono, non capiscono, talora compro­mettono l’immagine dell’istituzione. Molti, tra cui almeno un italiano, viaggia­no a spese dei contribuenti per fare affa­ri. Poi c’è un terzo di diligenti. L’ultimo terzo è quello che fa funzionare il Parla­mento. Che diventa sempre più impor­tante”.

I migliori?
“Poettering e Poniatowsky, lo scritto­re di origine polacche. Tra gli italiani, Ro­sario Romeo era molto amato: coltissi­mo ma semplice, accessibile. Anche Giu­liano Ferrara si distinse. Oggi abbiamo Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Mila­no, tra i pochi a mischiarsi con gli stra­nieri. Mario Mauro, il candidato di Berlu­sconi per la presidenza dell’Europarlamento.
Con Iva Zanicchi fummo rivali: la battei di cento voti; poi siamo diventati amici. Candidato modello per me è Carlo De Romanis, un under 30. Da non votare chi mette molti manifesti e spende trop­pi soldi: potrebbe volerli recuperare in qualche modo”.

Lei quanto spendeva?
“Mai più di 60 mila euro. E non ho mai fatto un manifesto: non servono”.

La gaffe più clamorosa?
“La Cassanmagnago, donna simpati­cissima, diede la parola a un ospite ara­bo: “Prego, signor Bahrein…”. L’aveva let­to sul cartoncino, pensava fosse il suo nome”.

Berlusconi fece di peggio, quando ac­costò il tedesco Schulz a un kapò.
“Fece la sua fortuna invece. Ora Schulz è il capo dei socialisti e diventerà presidente del Parlamento nella seconda metà della legislatura. Tutto grazie al Ca­valiere”.

Agnelli le chiedeva spesso notizie?
“Mai. Prima, quand’ero corrisponden­te dall’estero, era curiosissimo. Poi era preoccupato che in Europa mi annoiassi troppo”.

Cos’avevano in comune, nel privato, Berlusconi e Agnelli?
“Entrambi molto attenti alla propria immagine. Berlusconi nel giorno per giorno, Agnelli a lungo termine. Per cui Agnelli era più disposto di Berlusconi a fare sacrifici per l’immagine”.

E Veronica?
“La conobbi nel viaggio a Mosca, quando ero portavoce del governo. Piace­volissima. Come il marito, non ama la mondanità romana, la maritozzo-so­ciety. Ora ha espresso un sentimento comprensibile, in modi e tempi discutibi­li”.

Due volte lei andò a intervistare Wojtyla.
“La prima, nel ’91, a pranzo. Parlò di tutto, nel suo polacco popolare, così di­verso da quello letterario, quasi arcaico, di Vishinsky. Giovanni Paolo II rivalutò Jaruzelsky. Criticò Walesa, non l’eroe di Solidarnosc ma il leader politico modesto. Fece considerazioni positive sul comunismo, che badava ai poveri, e negati­ve sul capitalismo. Il giorno dopo mi chiamò il segretario e mi pregò di non scrivere nulla. Ma l’intervista successiva finì sui giornali di tutto il mondo”.

E ora lei cosa farà?
“Cercherò di far fruttare l’esperienza. Mi piacerebbe veder crescere il ruolo dell’Italia nel mondo. Purtroppo la nostra classe politica, lo dicono tutti, è scaden­te: non ha preparazione, né senso dello Stato”.

Aldo Cazzullo (Corriere della Sera 08-05-09)

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“Dei tre cavalli che corrono per Palazzo Marino, Albertini sembra il meno interessato alla gara. Mi ricorda Ribot, che a prima vista nessuno avrebbe dato come vincente, non avendo l’aspetto del grande galoppatore di classe; che quando veniva accompagnato al paddock per essere mostrato al pubblico osannante e girava con gli altri cavalli si vedeva chiaramente che era infastidito da tanto clamore e da tanta attenzione. Ribot appariva quasi neghittoso e mostrava una certa insofferenza per questa esibizione. Poi scendeva sulla pista, correva da par suo, vinceva con tre lunghezze di distanza e se ne andava ancora più seccato di prima tra le acclamazioni della folla” Indro Montanelli (maggio 1997)

“Quest’uomo dall’apparente remissività, persino umile, che mai alzerebbe la voce o pesterebbe il pugno sul tavolo, di un’ingenuità quasi fanciullesca – ricordate quando si mise in mutande alla sfilata di Valentino? – è un duro che si spezza ma non si piega né tanto meno si impiega” Indro Montanelli (aprile 2001)

Gawronsky, addio a Strasburgo: uno su tre è un eurofannullone

Jas Gawronsky, lei è il decano di Stra­sburgo.
“Mi candidai alle prime elezioni europee, nel ’79, con il Pri, dietro a Susanna Agnelli. Suni trionfò, io fui il primo degli esclusi, con cento voti in più di Roberto Olivetti, e tornai a fare il corrispondente Rai: Parigi, poi Mosca. Ma l’anno dopo Suni divenne ministro, e mi lasciò il po­sto. Sapevo a malapena cosa fosse il Par­lamento europeo. Non ne sono più usci­to, se non per una legislatura da senato­re”.

Ora però il suo nome nelle liste Pdl non c’è. Cos’è successo?
“Bisogna saper dire di no prima che te lo dicano gli altri”.

Le ha detto no Berlusconi?
“Al contrario, Berlusconi ha cercato di farmi cambiare idea. Ma la sesta volta sa­rebbe stata di troppo. Basta con la politi­ca attiva”.

A Strasburgo ha visto passare grandi personaggi.
“Simone Veil ogni tanto faceva intravedere il tatuaggio del numero che le avevano inflitto ad Auschwitz. Gere­mek, da quando è morto in un incidente d’auto, qui è diventato un mito. E poi Ca­stro, che andai a visitare due volte”.

Che impressione le fece?
“Ottima. Convinto di essere in buona fede. Esecra gli Stati Uniti ma in fondo li ammira. Adora il baseball. Un dittatore, ma un grande personaggio. Non come Ortega: un dittatoruncolo”.

L’italiano più noto all’Europarlamento?
“Pannella”.

Nel 2004 arrivò D’Alema.
“E rimase sempre sulle sue. Non era arroganza; era senso di superiorità”.

Santoro?
“Inutile. Era di passaggio. Non ha lasciato tracce”.

La Gruber?
“Tutt’altro. Molto charmante. E poi parlava tedesco. Qui le lingue sono fonda­mentali. Emanuele Filiberto ha detto di conoscerne cinque: è un vantaggio, ma l’importante è padroneggiare l’inglese”.

Quali tra gli italiani lo padroneggiano?
“Quasi nessuno”.

Il principino farà bene?
“Mi pare adatto. Gli auguro di essere all’altezza di Otto d’Asburgo, che dettava la politica verso l’Est europeo. Un vec­chietto delizioso: cortese, understated; tweed, lane pesanti; vestiti un po’ larghi, comodi, da gentiluomo di campagna”.

Nell’89 arrivò Giscard.
“Prima riunione del gruppo liberale. Per conoscersi ognuno si alza e racconta di sé. L’ordine alfabetico fa sì che siamo seduti vicini. Io parlo per qualche minu­to. Poi si alza lui, dice solo: ‘Mi chiamo Valéry Giscard d’Estaing e sono stato pre­sidente della Repubblica francese’, e si risiede. Una certa spocchia aristocratica, giustificata dall’intelligenza”.

E De Mita?
“Concentrato sulle cose italiane. Degli esteri non gli importava molto. Fosse a Strasburgo o a Bruxelles, si occupava di Avellino o Nusco”.

Esistono gli eurofannulloni?
“Certo che sì. Un terzo sarebbe meglio non ci fosse: sono i veri fannulloni; non seguono, non capiscono, talora compro­mettono l’immagine dell’istituzione. Molti, tra cui almeno un italiano, viaggia­no a spese dei contribuenti per fare affa­ri. Poi c’è un terzo di diligenti. L’ultimo terzo è quello che fa funzionare il Parla­mento. Che diventa sempre più impor­tante”.

I migliori?
“Poettering e Poniatowsky, lo scritto­re di origine polacche. Tra gli italiani, Ro­sario Romeo era molto amato: coltissi­mo ma semplice, accessibile. Anche Giu­liano Ferrara si distinse. Oggi abbiamo Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Mila­no, tra i pochi a mischiarsi con gli stra­nieri. Mario Mauro, il candidato di Berlu­sconi per la presidenza dell’Europarlamento.
Con Iva Zanicchi fummo rivali: la battei di cento voti; poi siamo diventati amici. Candidato modello per me è Carlo De Romanis, un under 30. Da non votare chi mette molti manifesti e spende trop­pi soldi: potrebbe volerli recuperare in qualche modo”.

Lei quanto spendeva?
“Mai più di 60 mila euro. E non ho mai fatto un manifesto: non servono”.

La gaffe più clamorosa?
“La Cassanmagnago, donna simpati­cissima, diede la parola a un ospite ara­bo: “Prego, signor Bahrein…”. L’aveva let­to sul cartoncino, pensava fosse il suo nome”.

Berlusconi fece di peggio, quando ac­costò il tedesco Schulz a un kapò.
“Fece la sua fortuna invece. Ora Schulz è il capo dei socialisti e diventerà presidente del Parlamento nella seconda metà della legislatura. Tutto grazie al Ca­valiere”.

Agnelli le chiedeva spesso notizie?
“Mai. Prima, quand’ero corrisponden­te dall’estero, era curiosissimo. Poi era preoccupato che in Europa mi annoiassi troppo”.

Cos’avevano in comune, nel privato, Berlusconi e Agnelli?
“Entrambi molto attenti alla propria immagine. Berlusconi nel giorno per giorno, Agnelli a lungo termine. Per cui Agnelli era più disposto di Berlusconi a fare sacrifici per l’immagine”.

E Veronica?
“La conobbi nel viaggio a Mosca, quando ero portavoce del governo. Piace­volissima. Come il marito, non ama la mondanità romana, la maritozzo-so­ciety. Ora ha espresso un sentimento comprensibile, in modi e tempi discutibi­li”.

Due volte lei andò a intervistare Wojtyla.
“La prima, nel ’91, a pranzo. Parlò di tutto, nel suo polacco popolare, così di­verso da quello letterario, quasi arcaico, di Vishinsky. Giovanni Paolo II rivalutò Jaruzelsky. Criticò Walesa, non l’eroe di Solidarnosc ma il leader politico modesto. Fece considerazioni positive sul comunismo, che badava ai poveri, e negati­ve sul capitalismo. Il giorno dopo mi chiamò il segretario e mi pregò di non scrivere nulla. Ma l’intervista successiva finì sui giornali di tutto il mondo”.

E ora lei cosa farà?
“Cercherò di far fruttare l’esperienza. Mi piacerebbe veder crescere il ruolo dell’Italia nel mondo. Purtroppo la nostra classe politica, lo dicono tutti, è scaden­te: non ha preparazione, né senso dello Stato”.

Aldo Cazzullo (Corriere della Sera 08-05-09)